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martedì, 14 Maggio 2024

Francesco rivoluzionario?

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Il bilancio del primo anno di pontificato di papa Francesco complessivamente è stato valutato dall’opinione pubblica, come si è visto, più che positivo. Entusiasmo e consenso quasi generali. Merito di Francesco indiscutibilmente, il quale, però, si è trovato ad agire in un contesto ecclesiastico di quasi bulimia di rinnovamento sulla spinta del Concilio Vaticano, contro il quale avevano remato di buona lena i due ultimi pontificati. Il pontificato scenografico wojtyliano e quello dottrinario ratzingeriano quella fame l’avevano tutt’altro che soddisfatta, orientati come sono stati a salvare il passato anziché a modellare il futuro d’una chiesa operante in un mondo altro da quello del Concilio di Trento. La coraggiosa rinuncia di Benedetto XVI ha reso possibile l’arrivo dell’uomo giusto in un clima favorevole. La funzione papale con lui ha acquisito umanità ed il vangelo comincia a non essere più parola vacua. La chiesa torna a respirare speranza.
L’irruzione di papa Bergoglio in Vaticano è stata talmente sconvolgente che per classificarla si è fatto un grand’uso della parola “rivoluzione”. In rapporto al passato del centro del cattolicesimo non meraviglia, spesso più luogo di potere che di servizio, gravitante attorno ad un uomo corteggiato e venerato quasi fosse toccato dal divino. Un termine, in realtà, fuori misura se inteso in senso appropriato, comprensibile solo come frutto della gioia dopo una lunga attesa. Rivoluzione, infatti, è un rivolgimento rapido e radicale che colpisce e trasforma dalle radici ciò che è sotto il suo attacco. Fin qui nulla del genere si è visto nella chiesa governata da Francesco. Certo la figura papale si è ridimensionata sull’umano, il vangelo ritrova la realtà, si profilano un governo più collegiale ed una riforma in senso meno padronale della curia romana. Innovazioni profonde, ma che rimangono nell’ambito dell’esistente della chiesa. Nulla che ne intacchi i muri portanti. La chiesa strutturatasi nei secoli è da riformare per metterla a giorno col mondo. Nulla più. Non si ritiene che abbia elementi che ne contraddicano la natura originaria e limitino l’efficacia del suo annuncio. Nulla nella sua dottrina o nei suoi riti che sia spurio e ragione della sua incapacità di parlare, ascoltata, alla la vita nella singolarità delle vite.
Se questa fosse la posizione di Francesco, come sembra confermare la recente intervista al Corriere, dirlo rivoluzionario sarebbe troppo. “La questione -affermava- non è quella di cambiare la dottrina, ma di andare in profondità e far si che la pastorale tenga conto delle situazioni e di ciò che per le persone è possibile fare”. Dunque, nessuna rivoluzione dottrinale. Quello che è stabilito definitivamente nell’ambito dogmatico, cioè le verità di fede, unitamente a quelle recepite come definitive nell’ambito morale, sono intangibili e irreformabili. Per queste ultime, che incidono sulla vita quotidiana, la chiesa non potrà che affiancare, con le accortezze del buon pastore, il credente per renderle comprensibili e accettabili ed alleviarne, se del caso, il peso. E’ l’accompagnamento pastorale su cui tanto insiste papa Francesco e che orienta tutto il suo ministero.
Eppure, le parole sopra citate di Bergoglio che nell’intenzione escluderebbero ogni cambiamento sostanziale nella chiesa, cioè ogni rivoluzione, tranquillizzando così i tradizionalisti sempre sul chi va là con questo papa che inanella sorpresa a sorpresa, sono, invece, rivoluzionarie. Quando dichiara che l’azione pastorale deve tener conto “delle situazioni e di ciò che per le persone è possibile fare”, Francesco cassa la condanna della cosiddetta “morale della situazione” che, negli anni ’50 del secolo scorso, molti teologi morali proponevano per rendere vivibili situazioni altrimenti insopportabili a causa dell’astrattezza dei principi che avrebbero dovuto regolarle. La vita, riconosce il papa, è un concatenarsi di situazioni concrete e specifiche a cui deve relazionarsi l’assolutezza dei principi. Nessun relativismo, ma neppure principi assoluti che anziché illuminare la vita la costringono in ceppi inaccettabili. Se non c’è mediazione razionale tra i due ambiti ci si consegna all’assurdo. Inavvertenza, quelle parole, d’una sensibilità troppo attenta alle sofferenze dell’uomo o consapevolezza d’un rivoluzionario? (2, continua)

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