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martedì, 21 Maggio 2024

Inchiesta su Tav e inquinamento, un passo indietro: le acciaierie Beltrame

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Nuova Società nasce nel 1972 come quindicinale. Nel 1982 finisce la pubblicazione. Nel 2007 torna in edicola, fino al 2009, quando passa ad una prima versione online, per ritornare al cartaceo come mensile nel 2015. Dopo due anni diventa quotidiano online.

Vedi anche: Prima parte dell’inchiesta (introduzione)
Prima di addentrarci nel tema centrale dell’inchiesta, facciamo un passo indietro per capire quale fosse la situazione in Valle di Susa precedentemente alla formulazione del progetto Tav.
Il territorio che si estende dalla periferia ovest di Torino fino al comune di Bardonecchia, come molte altre valli italiane, nel ‘900 ha basato la propria economia costituendosi come polo industriale.
Con il declino degli ultimi decenni, molti stabilimenti hanno chiuso e il volto della Valle ha iniziato a cambiare, ma i segni del suo passato sono ancora ben visibili: ad esempio nella pesante infrastrutturazione che caratterizza il territorio, complice anche la sua posizione di confine tra Italia e Francia, che storicamente ne ha sempre fatto un punto di passaggio strategico.
Non solo: alcuni stabilimenti hanno resistito allo smantellamento di fine secolo e alla nuova vocazione, prevalentemente turistica, della Valle.
È il caso delle Acciaierie Beltrame, site e attive da decenni nel piccolo comune di San Didero. Dopo alcuni anni di produzione indisturbata, all’inizio del nuovo secolo la loro attività cominciò a destare la preoccupazione di alcuni residenti valsusini, allarmati dalle emissioni dello stabilimento e dai rischi sulla salute degli abitanti.
Dopo ripetute segnalazioni, tra il 2003 e il 2004 l’Arpa Piemonte, l’ente regionale per la protezione ambientale, effettuò alcune indagini sull’attività della Beltrame, pubblicando poi un rapporto dai risultati abbastanza sconcertanti, tanto che qualcuno definì l’acciaieria “una piccola Ilva” valsusina.
Dal documento dell’Arpa, cui poi seguirono ulteriori accertamenti da parte di altri enti, emerse infatti che le emissioni della Beltrame inquinavano una vasta porzione di territorio, circa 20.000 chilometri quadrati, disperdendo nell’aria tre tipi principali di composti chimici dannosi per la salute: diossine, policlorobifenili (PCB) e idrocarburi policiclici aromatici (IPA).
Si tratta di inquinanti molto pericolosi per uomini e animali, soprattutto per la loro capacità di disperdersi non solo per via aerea, ma di depositarsi anche sul suolo e nei corsi d’acqua, con ricadute su tutta la catena alimentare.
Non solo: il rapporto dell’Arpa evidenziò anche che le acciaierie Beltrame producevano tali composti chimici in quantità nettamente superiore a quanto riscontrato in altri stabilimenti simili, superando così i limiti di legge fissati in materia.
Solo dopo anni di denunce rimaste a lungo inascoltate, rapporti e indagini, la questione dell’inquinamento prodotto dalla Beltrame si è guadagnata gli onori delle cronache.
Quando poi, recentemente, è intervenuto anche un rallentamento nella produzione, nel 2013 i dirigenti dell’azienda hanno minacciato di chiudere i battenti, lasciando così a casa più di 300 dipendenti. Solo dopo lunghe trattative e incertezze, nel febbraio del 2014 l’acciaieria ha garantito un anno di cassa integrazione ai lavoratori, rimandando così il problema di dodici mesi.
Nel frattempo però si era imposta una questione destinata a riproporsi sempre più spesso nel dibattito attuale, che ha fatto giustamente correre il pensiero al simile caso dell’Ilva: quella del rapporto tra salute e lavoro. Di fronte ad un’azienda che per decenni aveva prodotto e si era arricchita a discapito della salute della popolazioni locale, la battaglia in difesa del lavoro dei dipendenti dell’acciaieria non poteva infatti più essere condotta in modo aprioristico, ma doveva conciliarsi con un ragionamento più ampio su forme di produzione sostenibili e rispettose della dignità e della salute di tutti.
Non a caso, negli ultimi anni a prendere parola sulla complessa vicenda dell’acciaieria di San Didero è stato, tra gli altri, il movimento No Tav, non solo per una semplice prossimità territoriale con l’area interessata, bensì perché la battaglia contro l’alta velocità ha da tempo allargato il suo sguardo a una critica più generale sul modello di sviluppo che la Torino-Lione incarna e alla difesa della salute e del territorio.
E infatti le due storie, quelle della Beltrame e quella del Tav, erano destinate prima o poi a incontrarsi. Nell’aprile del 2013 il commissario governativo per la Torino-Lione, Mario Virano, durante un tavolo di discussione sul futuro dell’acciaieria propose di usare i fondi di compensazione per l’alta velocità per “salvare” lo stabilimento di San Didero.
Insomma, il passo indietro sulla vicenda della Beltrame ci mostra che il progetto Tav è andato a instaurarsi su un territorio caratterizzato da una situazione già molto compromessa nei termini di infrastrutturazione e inquinamento.
Ed ecco che la storia dell’acciaieria ci riporta al cuore della nostra inchiesta.
Nella prossima parte di questo lavoro cominceremo ad addentrarci nella questione della linea ad alta velocità e nelle sue conseguenze in termini di inquinamento.

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